La folle chimera della geoingegneria
Ma ad attirare l’interesse sull’argomento della geoingegneria è stato nel 2006 il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, che nel saggio Albedo Enhancement by Stratospheric Sulfur Injections afferma: “Se non ridurremo drasticamente le emissioni di gas serra e le temperatura continueranno a salire, allora l’ingegneria climatica sarà l’unica opzione possibile per ridurre rapidamente l’aumento di temperatura e contrastare altri effetti sul clima”. Nel 2007, in un promemoria inviato dagli USA all’IPCC, l’amministrazione Bush definisce “la modifica delle radiazioni solari” come “un’importante garanzia” contro il cambiamento climatico. E dello stesso avviso pare essere la prestigiosa Royal Society, ovvero l’accademia delle scienze britannica, che nel 2009 spronava il governo britannico a investire nella geoingegneria e due anni più tardi dichiarava che “potrebbe rivelarsi l’unica opzione in grado di ridurre rapidamente le temperature globali in caso di emergenza climatica”. Ma è dopo il flop della Conferenza sul clima di Copenaghen, nel 2009, che i media hanno iniziato a cavalcare con toni entusiastici la geoingegneria. Nathan Myhrvold, l’ex capo ufficio tecnologie di Microsoft ed ora a capo di Intellectual Ventures, due giorni dopo il summit di Copenaghen dichiarava alla CNN di essere in grado di ricreare gli effetti dell’eruzione del Pinatubo del 1991, diffondendo a 30 chilometri dal suolo diossido di zolfo, sostanza che avrebbe permesso di frenare il riscaldamento del pianeta. Ancora più ottimistica la visione di Levitt e Dubner, autori del best seller mondiale SuperFreakonomics uscito proprio due mesi prima del summit, per cui l’”opzione Pinatubo” era assolutamente preferibile all’abbandono dei combustibili fossili.
Le due principali opzioni che vengono prese in considerazione dagli ingegneri del pianeta sono l’utilizzo di aerosol sub-micrometrici a base di solfato per riflettere la luce solare al fine di raffreddare l’atmosfera e la contaminazione degli oceani con particelle di ferro per isolare il carbonio. E’ assurdo come la nostra mentalità continui a considerare il pianeta alla stregua di un mero oggetto da dominare e manipolare a proprio piacere nonostante le innumerevoli crisi che stiamo provocando, ed ecco che questi scienziati ci propongono come rimedio ai problemi causati da un certo tipo di male – l’ingerenza della tecnologia nel funzionamento del pianeta e dei suoi fragili e complessi cicli ecologici –ancora di più dello stesso male, ovvero una tecnologia addirittura più invasiva. Spruzzare solfati nell’atmosfera, secondo il comunicato stampa del 30 maggio 2012 da parte del Carnegie Institution, potrebbe far apparire una foschia permanente intorno alla Terra, rendendo l’immagine di un limpido cielo azzurro un mero ricordo, ed è chiaro che si andrebbe a interferire sulla capacità di crescita e fotosintesi degli organismi vegetali. Inoltre l’inquinamento delle particelle di solfato comporterebbe gravi rischi per la salute di tutti gli esseri viventi e comunque questa soluzione non risolverebbe il problema dell’acidificazione degli oceani, già aumentate del 30% secondo la NASA e che se non verranno fermate le emissioni di anidride carbonica mette una seria ipoteca alla continuazione della vita nei mari. Un altro svantaggio di questa tecnologia comunque non sperimentabile (non abbiamo un altro pianeta su cui applicare i nostri modelli teorici) deriva dal fatto che una volta iniziata la procedura di schermatura del sole non sarebbe più possibile smettere, perché altrimenti il pianeta verrebbe colpito da una gigantesca onda anomala di calore, le cui conseguenze sarebbero nefaste per tutti gli organismi viventi.
Ma in questo delirio di hybris e arrogante ignoranza di scienziati, uomini d’affari e politici – la stessa che ci ha ridotto in questa deprecabile situazione – manca quello che forse è il lato più oscuro di questa tecnologia. Secondo un articolo pubblicato dallo scienziato Alan Robock sul Journal of Geophysical Research nel 2013, le iniezioni di diossido di zolfo manderebbero nel caos più totale i monsoni estivi africani e asiatici, riducendo le precipitazioni e le risorse alimentari per miliardi di persone. Esistono altri studi che presentano risultati simili, per cui queste tecnologie potrebbero ridurre del 20% le precipitazioni nell’Amazzonia, oppure provocare un drastico calo della produttività delle piante delle nazioni africane del Sahel se le iniezioni di zolfo avvenissero in alcuni punti dell’atmosfera nel Nord. Questi risultati sembrano essere confermati dalla storia: dopo l’eruzione del 1991 del Pinatubo, ci fu la siccità più grave del secolo secondo l’UNEP, siccità che colpì pesantemente l’Africa e alcune regioni dell’Asia. In un quadro sempre più inquietante vanno ad aggiungersi le recenti dichiarazioni del noto climatologo americano Alan Robock, che sul The Guardian di domenica 15 febbraio mette in guardia sul coinvolgimento della CIA nella geoingegneria (ne finanzia parte delle ricerche ad esempio) e sulla possibilità che questa tecnologia possa essere utilizzata anche per fini militari da parte degli Stati Uniti. E’ chiaro a tutti che l’”opzione Pinatubo” non è altro che un’arma di distruzione di massa e che nella migliore delle ipotesi per mantenere lo stile di vita dei ricchi del pianeta, si dovrebbe sacrificare la vita di milioni di esseri umani, ovviamente i più poveri.
Ma non sembra esserci niente di buono nemmeno nell’altro “gioiello dell’ingegneria climatica”, ovvero la fermentazione degli oceani. In teoria il ferro stimolerebbe lo sviluppo del fitoplancton, un microrganismo che cattura il carbonio per mezzo della fotosintesi e ci sono già stati alcuni esperimenti in merito condotti dagli Stati Uniti (che non a caso non sono tra i 191 paesi che hanno firmato una moratoria sulla fertilizzazione oceanica al IX Convegno sulla Biodiversità dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 2008), come IRONEX I e IRONEX II o SOIREE. Con quest’ultimo ci sono stati dei risultati piuttosto inaspettati, infatti, nonostante i 50 chilometri quadrati di oceano riempiti di ferro, c’è stata una rapida espansione del fitoplancton per un’area pari a 1.100 chilometri quadrati. Il rischio è che il ferro e il fitoplancton provochi lo sterminio della vita nell’oceano, opzione che ha dovuto tenere in considerazione anche la stessa spedizione SOIREE ammettendo che “la fertilizzazione su larga scala probabilmente causerebbe dei cambiamenti sostanziali dell’ecosistema naturale e incontaminato dell’ambiente originario”. Il rischio, nonostante le caute parole di questi ingegneri del pianeta, è la sterilizzazione degli oceani, insomma come al solito non rimuoviamo le cause di un problema – le ingenti immissioni di gas serra nell’atmosfera – ma ci limitiamo ai sintomi (ridurre il calore del sole o cercare un qualche artificio per far aumentare la naturale capacità di assorbire il nostro inquinamento da parte del pianeta).
La geoigengeria è quindi un’opzione non percorribile, uno di quei classici esempi per cui la cura si rivelerebbe peggiore del male, ma continua ad essere testardamente caldeggiata dalle élite del pianeta, cioé dai vari Bill Gates (il miliardario e filantropo fondatore di Microsoft ha finanziato alcuni progetti di geoingegneria con una somma pari a 4,6 milioni di dollari secondo quanto riportato Naomi Klein nel suo ultimo libro da poco uscito), Richard Branson o dai fratelli Koch, ma anche da una parte di politici, militari e servizi segreti, cioè da parte di tutti quelli che piuttosto che cambiare il proprio modo di fare i soldi o imporre il loro potere, preferiscono offuscare il Sole.
di Manuel Castelletti
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Fonte : segnidalcielo.it
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